Un nuovo sogno europeo per i nostri giovani
European Commission
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European Commissioner for Industry and Entrepreneurship
Un nuovo sogno europeo per i nostri giovani
Lectio Inauguralis / Collegio Europeo di Parma
20 Gennaio 2014
Le lezioni della crisi
Al battesimo del suo mandato, nei primi mesi del 2010, la Commissione Barroso II si è trovata ad affrontare l'epicentro della crisi mondiale.
Nata dalla finanza tossica americana nel 2008, la crisi si era, infatti, spostata in Europa, minando la fiducia degli investitori nel sistema bancario e nei bilanci pubblici.
Le parole chiave nel linguaggio europeo sono presto diventate "default, austerità, spread, consolidamento fiscale, rottura dell'euro, disoccupazione, de industrializzazione…" Non certo un linguaggio capace di far sognare i popoli europei su un progetto comune.
Le dinamiche che mettevano a nudo la fragilità degli Stati erano diverse, alcune legate al sistema bancario, altre all'eccesso d'indebitamento privato e/o pubblico. Ma il nodo centrale era comune: le carenze dell'architettura dell'euro che hanno trasformato una crisi economica in una crisi di sistema. Portando alla più grave e lunga depressione dal dopoguerra.
A sessant'anni dallo storico discorso di Schuman, il 9 e 10 maggio del 2010, il Collegio dei Commissari, i ministri dell'economia e i capi di governo, si sono riuniti nel week end per evitare il baratro del default greco.
La risposta europea è stata probabilmente tardiva e incompleta, ma c'è stata. La speculazione ha prodotto danni ingenti, ma l'euro e l'Unione sono ancora qui.
Il fondo salva Stati, ha evitato il fallimento di Grecia, Irlanda e Portogallo, dando un sostegno decisivo al sistema bancario spagnolo.
Nessuno scommette più sull'uscita della Grecia dell'euro, l'Irlanda è tornata a finanziarsi sui mercati e presto il Portogallo potrebbe seguirla. Il costo del debito di Spagna e Italia continua a scendere.
Bisogna quindi riconoscere che la classe dirigente europea ha, almeno in parte, saputo dare risposte e trasformare la crisi in occasione per cambiare.
Tuttavia, le sofferenze che i popoli europei stanno ancora vivendo, a cominciare dai milioni di disoccupati, giovani senza prospettive e centinaia di migliaia d'imprese fallite, non può certo farci cullare sugli allori.
Al contrario, la crisi ha impartito molte lezioni di cui sarebbe imperdonabile non far tesoro. E devo, mio malgrado, riconoscere che non tutte queste lezioni hanno portato a opportuni ravvedimenti.
La prima lezione è che un'economia sana e moderna deve basare crescita e occupazione, non su continue svalutazioni, finanza speculativa e montagne di debito; bensì su una vera competitività industriale e forti radici nell'economia reale.
La seconda, è che avere la stessa moneta significa condividere ben più di un semplice mercato interno. La terza è che il mercato è un luogo di libertà e di regole e non una giungla dove vige la legge del più forte; o del più avido. Per cui, una finanza senza freni che sposta valori più volte superiori al PIL mondiale, non può assomigliare a una Las Vegas globale. E mettere in secondo piano la sua ragione sociale: convogliare il risparmio verso investimenti produttivi e i consumi.
Partendo da queste lezioni, molte cose sono state fatte, compresi alcuni errori. Ma molto resta da fare.
Nessuna carota per spingere le riforme
Abbiamo rafforzato la Governance macro economica con nuovi strumenti, quali il semestre europeo, il fondo salva Stati e un pacchetto normativo - il six pact - che rafforza il controllo sui bilanci pubblici.
Questo pacchetto, se da un lato introduce indispensabili strumenti di coordinamento europei sulle politiche fiscali, dall'altro poggia sulla sola gamba delle sanzioni e del rigore. Molto bastone e nessuna carota.
Il patto fiscale va dunque integrato con elementi di flessibilità e maggiore solidarietà. Uno Stato che deve intraprendere riforme difficili e tagli alla spesa va sostenuto. Anche con un allentamento dei vincoli di bilancio che lo aiutino a riorientare la spesa verso investimenti a favore della competitività.
Quando nel 2003 la Germania dovette rimettersi in carreggiata con riforme impopolari, il Consiglio europeo, sotto presidenza italiana, autorizzò uno sforamento temporaneo dei vincoli del Patto di Stabilità per consentire al paese di risollevarsi.
Lo stesso andrebbe fatto oggi per chi ha intrapreso un vero cammino di riforme e di tagli alla spesa improduttiva, i cui effetti non sono però immediati.
Un'Unione più solidale
Un patto fiscale rigido ha avuto come prima conseguenza quella di creare un eccesso di austerità.
La crisi ha insegnato che, nella cornice di un'unione monetaria, non è possibile nello stesso momento chiedere di ridurre l'indebitamento e finanziare riforme strutturali senza una forma di solidarietà europea.
Da questa miopia è nata la spirale recessiva che sta ancora distruggendo parte della nostra base industriale mettendo al rischio il futuro delle nuove generazioni in molti Stati membri. Creando un forte rigetto dell'idea d'Europa e dell'euro, identificati più come problemi che come soluzioni.
L'austerità, non bilanciata da investimenti mirati e da riforme per la competitività, ha ridotto la domanda interna, rendendo difficile l'uscita dalla recessione.
I timidi segnali di ripresa che si cominciano a vedere non bastano, difatti, a riassorbire i 26 milioni di disoccupati Ue. Per non parlare dell'asfittica crescita italiana, che certo non riuscirà a scalfire la soglia record di quasi 13% di disoccupati e del 41% di giovani senza lavoro.
Dobbiamo, dunque, cambiare. E introdurre strumenti di solidarietà europea che vadano oltre il fondo salva Stati e l'azione, pur tempestiva e generosa, ma nei limiti del suo attuale mandato, della BCE.
Penso, ad esempio, agli euro bond per ridurre il costo di finanziamento degli Stati liberando risorse per la crescita. O ai project bond, con cui finanziare piani d'investimenti su infrastrutture di rete ed efficienza energetica, creando milioni di posti, modernizzando e rendendo più sostenibile la nostra economia.
Lo stesso bilancio Ue, che rappresenta solo l'1% del PIL, dovrebbe essere rafforzato. Spendere in comune, significa spendere meno con più risultati.
Penso, ad esempio, a uno spazio di ricerca europeo che eviti duplicazioni e aumenti le sinergie. O a reti energetiche, digitali, di trasporto di dimensione europea.
Le infrastture spaziali Galileo, Egnos e Copernicus per la navigazione satellitare e l'osservazione della terra, su cui l'Ue sta investendo oltre 20 miliardi, con ricadute di oltre 120 miliardi, sono un chiaro esempio del valore aggiunto dell'agire insieme. Analoghe economie di scala e risparmi per miliardi si avrebbero in molti altri settori, a cominciare da quello della sicurezza e della difesa.
La banca centrale, come la Federal Reserve, dovrebbe guardare non solo all'inflazione, ma anche alla disoccupazione. Rischiamo, altrimenti, di diventare il vaso di coccio tra le potenze mondiali che usano la svalutazione monetaria in maniera sempre più spregiudicata; e ritrovarci, come adesso, con una moneta troppo forte che uccide l'export e il lavoro.
Oltre che con strumenti limitati per affrontare quello che pochi giorni fa, il direttore generale del FMI Christine Lagarde ha indicato come "l'orco che va combattuto con decisione": la deflazione.
Una finanza al servizio dell'economia reale
Negli ultimi quattro anni abbiamo promosso con decisione - e non senza incontrare forti resistenze - un nuovo quadro di regole per una maggiore trasparenza e solidità dei servizi finanziari, con tre autorità europee per assicurazioni, banche e borse.
Abbiamo reso il sistema bancario molto più solido, anche da un punto di vista patrimoniale, cercando di non penalizzar le PMI.
Basilea III, appena entrata in vigore, non si applicherà a prestiti fino a 1.5 milioni a favore di PMI.
Stiamo esaminando l'opportunità di scorporare le attività di trading speculativo delle banche da quelle tradizionali.
Il Consiglio di dicembre ha finalmente dato il via libera all'Unione Bancaria, per cui dal 2015 avremmo una vigilanza unica della BCE sulle banche "sistemiche" che sarà poi estesa alle altre banche entro il 2017.
La Commissione avrebbe auspicato un impianto più federale e solidale per il meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie per consolidare la fiducia nel sistema e creare un vero mercato integrato del credito. Anche qui, alcuni egoismi hanno impedito di andare fino in fondo.
Un Europa poco amica dell'industria
Forse, la lezione più importante della crisi, è stata quella di farci tornare alla realtà.
E' finalmente emersa una verità tanto lapalissiana quanto a lungo oscurata: senza industria e imprenditorialità non si può crescere e creare lavoro.
Mettere la sabbia in questi motori dell'economia equivale a boicottare l'occupazione.
Ci siamo cosi resi conto che l'Europa non era poi cosi amica dell'industria e del lavoro. Per cui, dalla fine degli anni 90 abbiamo avuto un forte declino industriale.
Nell'ultimo decennio l'Ue ha perso 350 miliardi d'investimenti, dimezzando la propria quota globale dal 40% al 20%.
La crisi ha accelerato questo processo, con la perdita di quasi 4 milioni di posti nell'industria e la quota di PIL legata al manifatturiero scesa al 15.1%.
Il baricentro della produzione manifatturiera si è sempre più spostato verso i paesi emergenti, con la Cina ormai vicino al sorpasso sull'Ue.
La continua perdita di base industriale non è stata una fatalità. Corrisponde a errori che sono alla radice dell'attuale crisi. Basti pensare che fino a poco tempo fa era di moda parlare del futuro post industriale dell'Europa. Lo strabismo europeo è palese se si guarda agli aiuti di Stato autorizzati con la crisi: 81 miliardi all'industria, 4200 alle banche.
Ci si è accorti con ritardo che l'80% dell'innovazione e dell'export vengono dall'industria e, per ogni posto nel manifatturiero se ne creano fino a due nei servizi. Per questo, come ha dimostrato la crisi, i paesi che hanno meglio retto sono quelli con una base industriale solida.
Malgrado queste evidenze, spesso l'Europa ha dato l'impressione di remare contro l'industria, con politiche, regole, burocrazia e altri costi che fanno fuggire le imprese e scoraggiano nuovi investimenti.
Noi stessi abbiamo creato una serie di handicap. Dal prezzo dell'energia più alto al mondo, a standard e adempimenti che si cumulano rendendo il costo della produzione in Europa insostenibile. Per non parlare di una politica di concorrenza che non sempre tiene conto della dimensione globale del mercato.
E' evidente che valori come la protezione dei lavoratori, della salute o del clima sono parte fondante dell'economia sociale di mercato europea. Ma spesso i costi aggiuntivi che imponiamo vanno ben aldilà di quanto necessario per una tutela effettiva di tali valori.
Ad esempio, avere un approccio punitivo per l'industria sulla lotta alle emissioni può portare a un risultato controproducente. Si perde la base industriale e la capacità d'innovazione, spingendo la produzione laddove non ci sono regole ambientali.
Dobbiamo smetterla di salire in cattedra e dare lezioni. E' giunto il momento di rovesciare la percezione di un'Europa ostile al business dando segnali inequivocabili sulla volontà di re industrializzare l'Ue.
Re industrializzare l'Europa
L'anno scorso abbiamo deciso di invertire la rotta. Nell'ottobre del 2012 la Commissione ha approvato una strategia per re-industrializzare l'Europa, con l'obiettivo di passare dall'attuale 15.1% al 20% di PIL legato al manifatturiero entro il 2020. Per questo stiamo lavorando su 4 direttrici: (i) credito, (ii) accesso ai mercati, (iii) formazione, (iv) più investimenti in innovazione vicina al mercato.
In tempi di risorse limitate, abbiamo individuato alcune aeree tecnologiche prioritarie ad alta potenzialità e con ricadute su tutti i comparti, inclusi quelli più tradizionali: bio-economia, tecnologie abilitanti fondamentali, veicoli puliti, smart grid, materie prime, costruzioni sostenibili, tecnologie avanzate per il manifatturiero e lo spazio.
Da qui al 2015 il 90% della crescita avverrà in paesi terzi. Per cui un maggiore accesso ai mercati internazionali è essenziale al rilancio dell'industria.
Anche su questo dobbiamo cambiare. Puntando sì, con decisione, sugli accordi di libero scambio con gli USA, l'America Latina, l'Asia o l'Africa, che valgono un incremento del 2% del PIL UE. Ma lasciando da parte alcune ingenuità del passato. Assicurandoci che nessun settore industriale esca penalizzato, garantendo un'effettiva reciprocità di accesso ai mercati. A cominciare dagli appalti pubblici. E non dobbiamo esitare, quando ve ne siano i presupposti, ad attivare legittime difese commerciali.
Siamo la prima potenza economica, industriale e commerciale al mondo. Il nostro saper fare e la qualità dei nostri prodotti sono richiesti ovunque. Dobbiamo far valere questa grande forza, con una vera diplomazia economica, che è poi essenziale anche a quella politica.
Oltre agli sbocchi commerciali, dobbiamo assicurarci un accesso alle materie prime e all'energia a prezzi concorrenziali e tutelare la nostra proprietà intellettuale. Utilizzando le nostre ambasciate anche per assistere le imprese europee.
Su questa linea ho guidato dal 2011 in Brasile, Argentina, Uruguay, Colombia, Messico, Usa, Marrocco, Tunisia, Egitto, Russia, Cina, Israele, Vietnam, Birmania e Tailandia, missioni per la crescita con imprese per facilitare opportunità di business e finalizzare accordi di cooperazione.
La Comunicazione "Per un Rinascimento Industriale Europeo"
Dopodomani, con una Comunicazione in vista del Consiglio europeo di marzo dedicato all'energia al clima e all'industria, faremo il punto sul cantiere aperto, ribadendo il nostro impegno a fare di più.
Ma chiederemo, con forza, anche agli Stati e alle regioni di cambiare passo, e di fare presto e fino in fondo la loro parte per rilanciare l'industria.
La Comunicazione indica chiaramente che per re industrializzare l'Europa dobbiamo mettere l'industria in cima all'agenda. Le risorse comunitarie, cosi come le politiche per il mercato interno, l'energia, le infrastrutture, le sostenibilità, la concorrenza, il commercio, la ricerca, l'innovazione e la formazione, dovranno concorrere alla competitività industriale in quanto fattore chiave per la crescita e l'occupazione.
La rivoluzione industriale in atto, di cui l'Europa vuole essere leader, implica un processo di modernizzazione verso maggiore competitività, efficienza delle risorse e sostenibilità legato a ingenti investimenti.
Per cui è essenziale utilizzare più fondi europei, fondi regionali, Orizzonte 2020, Cosme, in sinergia con i prestiti della Banca Europea d'Investimento, per fare da volano a investimenti privati e facilitare l'acceso al credito. La comunicazione prevede che oltre 100 miliardi di fondi regionali fino al 2020 siano investiti per investimenti nelle 6 aree strategiche identificate dalla Commissione.
Sarà anche possibile, per la prima volta, finanziare progetti industriali vicini al mercato e alla commercializzazione utilizzando Orizzonte 2020.
Uno Stato alleato del business
Il cambiamento più profondo che deve fare l'Europa riguarda il contesto in cui operano le imprese e i rapporti con le pubbliche amministrazioni.
Tra i maggiori handicap e divergenze di competitività nell'eurozona vi sono, infatti, l'alta tassazione e l'efficienza delle amministrazioni e della giustizia.
Ad esempio, se, come avviene in Italia, lo Stato paga le imprese in media con sei mesi di ritardo, oltre a scoraggiare gli investimenti, penalizza l'industria. Con vantaggio di chi opera in paesi come la Finlandia, dove le amministrazioni pagano in 15 giorni.
Discorso analogo vale per gli oneri burocratici, tempi e certezza per le licenze, la risoluzione di una causa civile o di una procedura fallimentare.
Allo stesso modo, la pressione fiscale su imprese e lavoro è determinante per la competitività industriale. Anche qui l'Italia è maglia nera, con oltre il 68% di tasse sulle imprese, 24 punti dalla media Ue (44%), 20 punti dai tedeschi e ben 31,3 dagli inglesi. Sul lavoro siamo al 42%, il doppio dell'Inghilterra.
Nei paesi con problemi di competitività il consolidamento fiscale va legato alla riorganizzazione dell'amministrazione pubblica, per maggiore efficienza, tagli agli sprechi e relativi tagli fiscali.
In un momento di crisi in cui gli imprenditori che rischiano di fallire tirano la cinghia, anche gli Stati devono fare la loro parte. Senza risolvere i problemi del debito tassando o non pagando le imprese.
Con questa logica perversa si schiaccia l'imprenditorialità andando verso un deserto produttivo e meno entrate per lo stato.
Una riduzione del perimetro dello Stato è iniziata in Spagna, Portogallo e Irlanda, con tagli del 9%, 5% e 11% della spesa pubblica. La Grecia ha addirittura ridotto di 1/3. La stessa Francia ha annunciato semplificazioni amministrative, tagli e riduzione delle tasse su imprese e lavoro. Solo l'Italia sembra ancora riluttante ad avviare questo processo.
Serve una nuova cultura, dove le amministrazioni pubbliche vedano l'imprenditore come un attore positivo. I risultati ottenuti con la direttiva sui ritardi di pagamento, che in alcuni Stati ha avviato una vera rivoluzione, liberando molte imprese da un rapporto di sudditanza con il funzionario pubblico, ci fa capire che l'Ue può svolgere un ruolo ancora più incisivo.
Per questo dopodomani annuncerò un nuovo Small Businees Act che preveda veri vincoli legali sui tempi per avviare un'impresa, ottenere una licenza o recuperare un credito.
Un patto per l'industria per cambiare l'Europa
La nuova Comunicazione pone le basi per una governance micro-economica da affiancare a quella macro, mettendo in primo piano, in tutte le politiche, la competitività industriale.
Al Patto Fiscale va, dunque, affiancato un Patto per l'Industria che riequilibri e integri l'azione per la crescita con misure microeconomiche che rendano l'Europa più attrattiva per investimenti e manifatturiero.
Sono favorevole a un'applicazione più flessibile del Patto di Stabilità a quei paesi che prendano impegni vincolanti per migliorare la competitività industriale, come riforme della giustizia, del lavoro, della P.A. e l'abbassamento del carico fiscale su imprese e lavoro.
Il prossimo vertice di marzo dovrà consolidare l'inversione di marcia e definire questo Patto.
Conclusioni
La promozione 2014 del Collegio di Parma è dedicata a Erasmo da Rotterdam.
Il suo nome non può non evocare, oltre che i programmi europei di maggiore successo, "l'elogio alla follia". Follia intesa come forza creatrice del cambiamento.
Un'Europa che voglia far di nuovo sognare e dare prospettive deve partire da qui. Dalla follia che rompe tabu e schemi, si fa innovazione, libertà apertura ai nuovi orizzonti.
Se è vero che l'innovazione è la nuova energia che serve sia all'economia che alla politica, sono convinto che questa verrà in prevalenza dalle menti e dall'impegno di ventenni o trentenni come voi.
Le nuove generazioni devono essere invogliate alla cultura del rischio e del cambiamento. Sprecare il loro potenziale, i loro talenti, adesso, vorrebbe dire non aver capito le lezioni della crisi.
Naturalmente nessuna start up o progetto di vita si realizza in un deserto industriale, con centri di ricerca e università scadenti e burocratizzati, un'amministrazione ostile, mancanza di capitali.
Compito della politica è proprio quello di creare un contesto diverso, dove l'idea, il sogno, l'energia creativa di chi vuole intraprendere, possano andare avanti.
Il Piano per l'imprenditoria europeo rafforza strumenti di accesso a credito e venture capital anche per start up e programmi di scambio di esperienze come Erasmus per giovani imprenditori. E punta sul ruolo essenziale dell'educazione e della formazione che sono il cuore pulsante di qualsiasi politica industriale.
I sistemi educativi d'eccellenza, come il Collegio d'Europa, in stretta dialettica con il mercato e le imprese, sono la chiave per offrire ai giovani reali opportunità.
Se è facile accusare di populismo chi attacca l'euro e considera l'Europa una sorta di Leviatano, lo è altrettanto dare risposte ai problemi in chiave distruttiva delle conquiste europee.
Difficile è invece risolvere realmente questi problemi, dando prospettive vere a voi giovani. Ma proprio questo è il compito della buona politica.
E' auspicabile che in vista delle prossime elezioni europee la politica svolga un ruolo serio, spiegando la posta in gioco, convincendo a partecipare a un nuovo progetto europeo. Canalizzando le proteste, trasformandole in voglia di cambiamento. Per costruire una nuova casa più solida e adatta a tutelare gli interessi dei cittadini europei tra le tempeste del mondo globale.
L'Europa che sognava De Gasperi, amareggiato dal fallimento del progetto di Comunità Europa della Difesa in cui vedeva, appunto, l'embrione di un'Europa non fondata sul solo mercato.
Pensando a De Gasperi e agli altri padri fondatori, dobbiamo essere consapevoli del patrimonio che abbiamo ereditato. Non è per caso se abbiamo vinto un Nobel; se siamo la sola area al mondo che ha saputo darsi un metodo per decidere insieme nel rispetto della diversità; se non abbiamo la pena di morte; se mettiamo i nostri valori, la democrazia, e i diritti fondamentali, prima di ogni altra cosa.
E' questo progetto di pace, libertà, e solidarietà che va rilanciato, che deve tornare a farci sognare.
Dobbiamo avere il coraggio, la determinazione, per finire la traversata del guado dove, adesso, rischiamo di essere travolti. Di andare verso un'Europa davvero politica, vicina ai popoli, con un governo economico, un bilancio, una banca centrale, una voce unica e forte nel mondo. Rovesciando l'immagine d'istituzioni distanti, chiuse in una torre d’avorio, ingessate da una burocrazia auto referenziale.
Oltre alla grande industria, vi sono 23 milioni di piccoli e medi imprenditori. Sono, prima di tutto, uomini e donne con un sogno da realizzare. E' energia vitale che si concentra su idee, progetti, tanto lavoro, rischio, per creare valore aggiunto, ricchezza, occupazione. Sono la vera linfa vitale dell'economia e della società.
Voglio guardare al futuro con ottimismo. Se sapremo agire, tutti insieme, per liberare l'energia di milioni di donne e uomini imprenditori sciogliendo i nodi che ostacolano la loro voglia di fare, usciremo dalla crisi e torneremo a crescere e creare lavoro.